Emotiva-mente parlando…

Prima che vi immergiate nella lettura di questo breve articolo, vorrei darvi un consiglio: procuratevi il libro “Intelligenza emotiva. Cos’è e perché può renderci felici” di Daniel Goleman.

Questo libro è stato pubblicato nel nostro paese nel 1996 ed è finito nelle mie mani ora, quasi trent’anni dopo. Non l’ho ancora terminato, ma ho sentito il bisogno di scrivere e condividere alcuni pensieri con gli altri, in particolare con chi dedica il suo tempo ed energie al mio stesso lavoro.

Goleman accompagna il lettore/lettrice nei meandri di uno degli organi più complessi, e per alcuni versi anche misterioso, del corpo umano: il cervello. Lo fa nel tentativo di spiegare il ruolo delle emozioni, negative o positive che siano, nella nostra vita. Attraverso il racconto di alcuni casi, svela tutti i processi che si attivano all’interno di specifiche aree del cervello che sono destinate ad intervenire in determinate situazioni. Scoprirete, per esempio, che esistono persone che vivono un’emozione senza averne alcuna consapevolezza (possono piangere, ma non sanno il perché). Molto spazio è dedicato proprio all’importanza di avere consapevolezza delle proprie emozioni, alla capacità di riconoscerle in base alle risposte fisiologiche che il nostro corpo dà a degli stimoli esterni. Questo è fondamentale non solo per la singola persona, ma anche per chi si occupa della crescita degli altri. I docenti, specie della scuola dell’infanzia e primaria, hanno il delicato compito di guidare, attraverso mezzi e strumenti tra i più variegati, tra cui la parola, i bambini nel riconoscere le emozioni e imparare i meccanismi che le possono aver attivate (vedersi togliere un gioco dalle mani può attivare la rabbia o un passaggio ben fatto con la palla con il goal più bello della storia attiva gioia…). Questa azione educativa, però, non deve rimanere confinata nelle dinamiche tra bambini. I docenti interagiscono coi i piccoli o con i ragazzi e, inevitabilmente, innescano processi emotivi con conseguenti risposte. In uno dei capitoli del libro, Goleman fa diretto riferimento all’ansia. Parla di esperimenti molto semplici come quelli in cui a delle persone veniva richiesto di classificare oggetti entro un tempo stabilito. Proprio l’elemento tempo è quello che ha decretato un atteggiamento negativo che ha inficiato le prestazioni. Leggendo quei passaggi, ho subito pensato alla scuola e al modo in cui, generalmente, intende verificare lo stato degli apprendimenti. I bambini delle classi in cui ho trascorso le mie ore a scuola, mi  hanno posto questa domanda: “Ma perché con te non le facciamo mai le verifiche?”. La mia risposta è sempre stata semplice: “A me basta osservare”. L’osservazione mi permette di cogliere tutti gli sviluppi dei bambini. Durante il ciclo precedente, è poi arrivata l’evoluzione di questo mio approccio e cioè quello di coinvolgerli nella scelta degli obiettivi da raggiungere. Questo ci ha permesso di monitorare, con un’autonomia sempre crescente, il percorso di apprendimento. La spontaneità dei bambini era sempre presente, accompagnata da  libertà di espressione. Rispetto alla verifica “classica” con schedina o fascicoletto e tempo entro cui finire, il clima è completamente diverso. Quel tipo di verifica innesca, in alcuni, uno stato d’ansia che altera il  modo di agire o pensare. Chi adotta questo tipo di strumento, utile solo a verificare l’acquisizione di contenuti, deve dunque accettare che le prove di alcuni bambini non sono veritiere e che la valutazione rispecchierà una realtà che è stata alterata da uno stato emotivo non sereno o non positivo.

Se, al contrario, sfruttiamo il nostro tempo scuola per pianificare con i nostri alunni delle attività, in base agli obiettivi scelti, possiamo, comunque verificare senza dover ricorrere a mezzi che inducono emozioni negative. I bambini stessi accrescono la loro autonomia nell’analizzare il loro operato e riescono a comprendere come poter migliorare. Questo permette anche di avere un confronto con il docente molto aperto e volto alla collaborazione. Il bambino diviene molto obiettivo e sposta l’attenzione sul compito. Nel caso di un’attività che restituisce la presenza di errori, il bambino si attiva per superarli. Pensiamo ora alla disgrazia del voto numerico. Quante volte, quando eravamo studenti, ci siamo immedesimati in quel 4 o 5? Quante volte ci siamo detti “Io valgo 4”? Nel caso di una valutazione condivisa o nel caso di esperienze che portano ad un’autoanalisi e, dunque, all’autovalutazione, questo non succede perché ci si concentra sul compito. Nel caso in cui ci sia qualcosa che ostacola un percorso positivo, che ci fa capire di non aver raggiunto o di essere lontani dal raggiungere l’obiettivo, il gioco si fa più interessante e occorre trovare il modo per percorrere altre strade o qualcosa che favorisca la comprensione del problema per la sua risoluzione. Questa fase può essere affrontata sia in modo individuale che con il supporto del gruppo, oltre che del docente. I bambini e i ragazzi hanno il pieno diritto di vivere in un ambiente in cui si sentono protetti, supportati e sicuri. Se garantiamo questo, con specifiche tecniche pedagogiche e accortezze dettate dall’empatia, avremo garanzia di un apprendimento vero e  duraturo, quello che assicurerà lo sviluppo della persona nella sua interezza, non solo per ciò che riguarda l’acquisizione di contenuti.

Permettetemi di fare un’ultima considerazione sulle prove standardizzate (Invalsi). Alla luce degli studi e dei riscontri di cui la scienza ci rende edotti in materia di emozioni e comportamento, come facciamo a ritenerle attendibili? Se potessimo analizzare il livello di cortisolo (ormone che viene prodotto nel caso in cui la persona si sente sotto stress) in circolo negli alunni e studenti che devono affrontare queste prove, capiremmo che forse i risultati valgono fino ad un certo punto, specie nel momento in cui ci si inventa che possono intervenire sulla famigerata media dei voti (per la scuola secondaria).

Cerchiamo, dunque, di costruire uno spazio di crescita emotiva-mente sostenibile, dando importanza a tutte quelle esperienze che attivano gioia e processi mentali che predispongono al benessere. La conoscenza di certi processi che intervengono a livello cerebrale spiana la strada ad una nuova era, quella che finalmente riesce a sfatare la convinzione che “a scuola bisogna studiare e che studiare vuol dire sofferenza e sacrificio”.

 

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